Memento Mori

Scritto nel 1962 da Samuel Glasstone
Il “memento mori” rappresenta uno dei moniti più antichi dell’umanità: nella tradizione filosofica – e ancor più nella cultura cristiana – la formula “ricordati che devi morire” ha assunto un profondo valore morale e spirituale, invitando l’individuo a riflettere sulla caducità della vita e, nondimeno, sull’importanza di impiegare al meglio il (poco) tempo che ci è concesso.
Tradizionalmente, il concetto viene associato al pensiero religioso e alle meditazioni ascetiche: in ambito clinico, tuttavia, il memento mori si è trasformato in una vera e propria “guida silenziosa” per i medici antichi.
I chirurghi dei secoli scorsi, ben più esposti all’eventualità di un esito fatale durante le loro operazioni, spesso incidevano teschi sugli strumenti o sui pomelli dei bisturi per tenere sempre a mente la fragilità della condizione umana.
Altri ancora portavano anelli o gioielli raffiguranti ossa e macabre effigi: era un modo per rammentare che, nonostante i progressi della scienza, l’uomo rimane soggetto alle leggi ineluttabili della natura. Era un messaggio di umiltà, una consapevolezza che la vita e la morte si toccano da vicino in ogni atto chirurgico, e che il medico, per quanto abile, non può ergersi a garante dell’immortalità.
A ben vedere, dunque, il “memento mori” non è soltanto un cupo avvertimento: è un’idea che nobilita l’impegno del medico. Ricordare di non essere onnipotenti libera dall’illusione di poter riscrivere le regole della natura: anche i chirurghi di oggi, forgiati da metodi e tecnologie d’avanguardia, non possono ignorare la fragilità che ci accomuna tutti. Resta la stessa fiammella di umiltà, a rammentare che, in qualunque sala operatoria, la morte non è sconfitta, ma soltanto tenuta a debita distanza, con studio e sapienza.