Influenza asiatica

Scritto nel 1962 da Samuel Glasstone

L’odio per il “nemico” è alla base della propaganda che alimenta ogni grande guerra. Per questo, in passato, anche le malattie venivano etichettate in modo da scatenare sentimenti di ostilità.

Pensate alla sifilide: comparsa in Europa alla fine del Quattrocento, divenne per gli italiani il “morbo francese”, poiché si diffuse rapidamente tra le truppe di Carlo VIII in Campania. I francesi risposero chiamandola “morbo napoletano”, scaricando sulla città partenopea la responsabilità del contagio.

Allo stesso modo, in epoca moderna, la terminologia medica ha seguito percorsi analoghi, trasformando ogni nuova infezione in un avversario su cui scaricare paure e risentimenti.

Nel XX secolo, infatti, la tendenza a geolocalizzare le epidemie proseguì, ma con sfumature diverse. Durante la Prima Guerra Mondiale, gli stati belligeranti evitarono di ammettere l’esistenza di un’epidemia letale per non indebolire il morale. Solo la Spagna, neutrale e senza censura, pubblicò liberamente i bollettini: gli altri Paesi coniarono subito il termine “influenza spagnola” per demonizzare la Nazione non schierata.

Quasi quarant’anni più tardi, l’“influenza asiatica” e l’“influenza di Hong Kong” seguirono lo stesso schema, identificando le nuove varianti con il luogo in cui furono rilevate per prime, anziché attraverso caratteristiche virologiche oggettive.

Oltre a stigmatizzare intere popolazioni, i nomi distorcevano la percezione della malattia, confondendo geografia e biologia.

Per porre fine a questo circolo vizioso, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato nel 2015 linee guida che impongono nomi neutri e descrittivi per le nuove malattie emergenti, basati su codici alfanumerici, famiglie virali e manifestazioni cliniche.

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