Coccodrillo

Scritto nel 1962 da Samuel Glasstone

Un tempo, sui banconi delle antiche farmacie, troneggiava un curioso oggetto a forma di coccodrillo.

Realizzato in solido metallo, l’arnese era conosciuto come “coccodrillo stringitappi”: serviva, giustappunto, per comprimere i tappi di sughero e portarli alle dimensioni perfette per sigillare fiale e flaconi.

Era un gesto quotidiano, semplice ma fondamentale, tipico di un’epoca in cui nulla era preconfezionato e ogni farmaco veniva preparato al momento, su precisa indicazione del medico.

All’epoca, infatti, il farmacista – o meglio, l’apotecario – mescolava ingredienti, distillava soluzioni e dosava polveri secondo istruzioni dettagliate: le cosiddette “ricette”.

Non è un caso se ancora oggi usiamo questo termine. Deriva dal latino recipere, ovvero “prendere”, un verbo che apriva quasi ogni prescrizione: “Prendi tot scrupoli di questa sostanza, mescolali con una libbra di…”.

Ogni ricetta, dunque, era un procedimento manuale, personalizzato, frutto di competenze mediche e, in un certo senso, alchemiche.
Con il passare dei secoli, la farmacologia si è trasformata radicalmente: le conoscenze si sono ampliate, la chimica ha reso più sicura ed efficace la composizione dei farmaci, e la rivoluzione industriale ha portato alla produzione su larga scala.

Tuttavia, oggetti come il “coccodrillo” restano memorie materiali di un tempo in cui la cura passava letteralmente per le mani di chi la preparava. Un tempo in cui il confine tra medicina e mestiere era più sottile, e ogni gesto – anche quello di comprimere un tappo – faceva parte del rito della guarigione.

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